Appello al Segretario Cucca per osservanza del 50% di genere nella composizione della Segreteria regionale

Caro Segretario,

nel rinnovarti gli auguri di buon lavoro per questa nuova avventura come nostro Segretario regionale ti chiediamo formalmente di applicare il metodo PD, ossia di tenere conto per la formazione della segreteria dell’adeguata presenza femminile, ossia il 50%, e che cercherai di far applicare questa regola a tutti i livelli. In verità siamo il 51% della popolazione sarda, ma quell’1% ve lo abbuoniamo in segno di pace, si scherza. Noi non ci stancheremo mai di ricordartelo.

Siamo certe che non avrai problemi ad individuare le donne giuste per ogni incarico, la Sardegna è piena di donne capaci, preparate e coraggiose.

Siamo convinte che opererai le giuste scelte, e potrai sempre contare sul popolo femminile del Partito Democratico della Sardegna, come sai non ci tiriamo mai indietro e saremo sempre in prima linea per il bene della nostra gente e del nostro territorio. Ci aspettano mesi complicati, il lavoro non ci spaventa contiamo che sceglierai una Segreteria che proceda spedita verso una riorganizzazione del territorio, che coinvolga associazioni e persone per un nuovo inizio, dobbiamo tenere conto anche dei tanti nuovi iscritti.

La gente non è stanca della politica, anzi, è cresciuta la voglia di partecipare e di incidere, semplicemente non si riconosce nelle stanche e incomprensibili liturgie della politica che frenano entusiasmo ed energia.

Dobbiamo recuperare più di un anno di immobilismo, ora insieme e compatti torniamo ad essere punto di riferimento e promotori di idee e progetti per il benessere della nostra gente e per la salvaguardia del nostro territorio.

Speriamo che la lunga attesa per la formazione della segreteria regionale sia ricompensata dalla qualità dei suoi componenti.

Ti ringraziamo per l’attenzione e confidiamo nel tuo sincero rispetto per l’uguaglianza.

Un sorriso e un abbraccio

Pensioni, giovani e pubblica amministrazione sono cose separate?

Leggendo l’aggiornamento dei dati relativi agli occupati nella P.A. per il 2015, sembrerebbe proprio di no.
Su 3 milioni di occupati, solo 80 mila (poco più del 4%) sono under 30.

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Una bella sveglia, come dice Enrico Mentana, per i giovani disoccupati, e un campanello d’allarme, sempre secondo il direttore del TG de La7, per la pubblica amministrazione che si trova praticamente priva di nativi digitali nel suo organico.

La situazione degli operatori dei beni culturali in Sardegna [Francesca Desogus]

L’investimento culturale è ormai universalmente riconosciuto come importante fattore di crescita per la cittadinanza. Tutti concordano anche sul fatto che il turismo, settore trainante della nostra economia, sia sempre più attento alla cultura e che le aspettative di chi visita la Sardegna siano cambiate rispetto al passato, come, del resto, sono cambiate le esigenze culturali dei cittadini residenti. È necessaria, quindi, un’offerta di cultura sempre più vasta e qualificata, diffusa nel territorio.

Goni - Menir (foto tratta dalla Sardegna Digital Library)
Goni – Menir (foto tratta dalla Sardegna Digital Library)

Ma come viene gestito il settore dei beni culturali nell’isola? Quali sono i problemi e quali sono le  prospettive di un settore basilare dal punto di vista identitario e che può rivelare importanti ricadute sul piano economico e soprattutto in termini di crescita civile?

Se escludiamo le realtà statali, il grosso dei presidi culturali sardi è gestito con fondi regionali.

La gestione del patrimonio culturale si sviluppa in Sardegna durante gli anni Ottanta, sulla spinta di un provvedimento legislativo urgente, teso a favorire l’occupazione giovanile, femminile e delle categorie svantaggiate (ex L.R. 28/1984). L’erogazione dei finanziamenti previsti dalla legge regionale ha portato nel corso degli anni alla formazione di una realtà eterogenea. Sono nate nel territorio numerose aziende, che in alcuni casi si sono sviluppate, divenendo realtà di ambito regionale, e in altri sono rimaste delle piccole società interessate solo ad una gestione meramente locale. Nella quasi totalità dei casi si è comunque giunti ad affidare la gestione dei beni culturali a soggetti esterni, solo in alcuni casi affiancati da dipendenti pubblici.

Se nell’immediato la gestione esterna è apparsa al legislatore una soluzione che permetteva buone ricadute occupazionali sul territorio, e prometteva di essere meno dispendiosa della gestione diretta, nondimeno il sistema ha presentato delle criticità.

Una di queste è costituita dalla discontinuità nella gestione: l’affidamento temporaneo  periodicamente deve essere prorogato alla stessa società, o alla sua scadenza sottoposto ad un nuovo bando di gara; non di rado i periodi di gestione risultano, però, troppo brevi perché possa essere fatta una corretta programmazione che garantisca una corretta amministrazione dei beni.

Un altro problema deriva da una visione parziale e viziata da particolarismi locali che ha portato ad investimenti a pioggia e all’apertura di presidi identici a pochi km di distanza, spesso ingiustificati e a volte neppure necessari. Diverse volte alla base di tali scelte vi sono scopi occupazionali che sono comprensibili ma che, alla lunga, si rivelano fallimentari se non dannosi per l’immagine dell’intero comparto. Una frammentazione nella progettazione e nella spesa, che ha portato negli ultimi decenni ad un enorme spreco di risorse ed a una cattiva gestione del lavoro e degli investimenti.

Questa frammentazione appare particolarmente evidente nell’offerta museale, con tante piccole realtà che faticano, a volte anche per mancanza di adeguate professionalità, a sostenere la gestione. Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma è evidente la forte ripetitività di questa offerta, costituita da troppi musei della stessa tipologia (come ad esempio i musei etnografico-antropologici), spesso troppo vicini tra loro e privi di un bacino d’utenza che ne giustifichi l’esistenza. Questi problemi, nell’attuale congiuntura economica, si presentano in maniera ancora più gravosa. Negli ultimi anni, a fronte di un calo dei finanziamenti regionali, si è assistito a gestioni rinnovate talora mese per mese, alla presenza di personale dotato di livelli non omogenei di professionalità, a rischi di particolarismo e ad investimenti non sempre corretti né giustificati nelle nuove tecnologie.

Il problema che oggi appare più pressante è però quello degli operatori della cultura.

Il  personale che opera nella gestione dei beni culturali svolge un servizio di primaria importanza e come tale, anche se non di ruolo, necessita di avere un lavoro stabile, continuo e garantito nel tempo.

È evidente che un personale precario, sottopagato e sempre, o spesso, a rischio di licenziamento – e quindi facilmente ricattabile – non può garantire una grande efficienza.

Se in un primissimo periodo è stato impiegato in questo settore anche personale “improvvisato” (che poi ha però acquisito una professionalità sul “campo”), gli operatori che hanno iniziato a lavorare negli ultimi decenni sono laureati e specializzati, e si deve ricordare sempre che sono persone che hanno scelto di spendere la loro professionalità in Sardegna e non altrove. Spesso lavorano a fianco di dipendenti pubblici che non hanno le stesse specializzazioni e solo la loro professionalità garantisce quindi la corretta gestione dei beni.

La frequente mancanza di figure professionali specifiche all’interno delle amministrazioni pubbliche ha ripercussioni negative anche nella fase di selezione del personale (nel caso di reclutamento di collaboratori esterni) e in quella della redazione di bandi di gara e della successiva valutazione delle offerte (in caso di esternalizzazione del servizio). Soprattutto in questo ultimo caso può avvenire che tale valutazione, affidata a personale non tecnico, sia basata su criteri meramente economici senza che venga stimata correttamente la congruità dell’offerta ed il suo reale valore scientifico. È poi inutile aggiungere che con i tagli degli ultimi anni è partito un gioco al massimo ribasso che colpisce prima di tutto gli operatori.

Prima conseguenza di questa tendenza al ribasso è la mancata applicazione del contratto di settore. Se fino a pochi anni fa tutto il personale era inquadrato con il contratto Federculture, come previsto dalla Legge regionale n. 4 del 2000 e dalle successive deliberazioni (Deliberazioni Giunta Regionale  n. 36/6 2000 e n. 50/47 2009), nell’ultimo periodo in molti comuni è stato sempre più spesso applicato il contratto Multiservizi, quello generico e previsto, tra l’altro, per le pulizie. In conseguenza di ciò, abbiamo operatori iperspecializzati, su cui la regione ha investito pesantemente, magari col programma master and back, che vengono pagati 5 euro all’ora e, soprattutto, che vengono mortificati nella loro dignità professionale. Tutto questo nonostante il finanziamento regionale continui ad essere erogato avendo come base i livelli contrattuali del Federculture.

A ciò si aggiunge – e purtroppo ormai sta diventando la norma – che gli operatori vengano pagati quando capita, con ritardi nell’erogazione degli stipendi di 5- 8 mesi.

Ma qual è il quadro normativo regionale di riferimento? E soprattutto, come viene applicato?

Nonostante l’entrata in vigore della L.R. 14/2006, che prevedeva un piano regionale per i beni culturali, gli istituti e i luoghi della cultura (art. 7), questo, approvato con delibera 64/6 del 18.11.2008, è scaduto senza mai trovare applicazione, ad eccezione della nomina dell’Osservatorio regionale per le biblioteche e dell’Osservatorio regionale per  i musei.

Questo vuoto normativo, la mancanza di controlli e la lentezza nei pagamenti hanno portato ad una situazione di estremo disordine e spreco. Sono stati erogati finanziamenti a pioggia per interventi fini a se stessi che non hanno poi portato alcun beneficio.

Ci sono enti che, pur continuando a ricevere i finanziamenti regionali, decidono di chiudere servizi o li riducono, con il conseguente blocco dell’appalto e successivo licenziamento del personale. Apparentemente questo avviene senza nessun controllo.

Quartu Sant'Elena - Antico Macello
Quartu Sant’Elena – Antico Macello

Quali possono essere i rimedi o almeno i correttivi da applicare a questa situazione?

La proposta di istituzione di una Fondazione per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna (proposta di legge N. 235, XIV legislatura) ha suscitato sia aspettative che  preoccupazioni.  Si è trattato di un’iniziativa lodevole nella sua essenza, perché si proponeva di dare stabilità o almeno continuità lavorativa agli operatori, ma sono diversi gli aspetti che destavano perplessità:

  1. non era chiaro quali garanzie di solidità nel tempo fossero offerte dalla Fondazione;
  2. non si capiva quale sarebbe stato il ruolo delle cooperative e soprattutto quello del personale amministrativo;
  3. non era chiaro in che modo gli enti locali potessero trovare la motivazione e la convenienza nel partecipare finanziariamente alla Fondazione;
  4. doveva essere assicurato l’ingresso degli operatori attraverso una selezione pubblica mirata (concorso che valorizzasse titoli ed esperienza), che mettesse al riparo dal ricorso di terzi;
  5. era necessario coinvolgere nel C.d.A. l’ANCI, i comuni ed eventualmente anche le associazioni di categoria (AIB, ANAI etc.) e non solo l’Università e Soprintendenze, che avrebbero portato nei ruoli direzionali personale senza alcuna esperienza pratica;
  6. era necessario garantire mobilità all’interno della Fondazione, che potesse portare gli operatori anche a ricoprire ruoli di coordinamento e supervisione.

Troppi quindi i punti che richiedevano una maggiore riflessione e si presentavano di non facile soluzione.

Accantonata dunque, almeno per il momento, l’idea di una fondazione, innanzitutto occorre pensare ad un percorso che porti ad affermare anche in Sardegna modelli gestionali unitari e coordinati, per garantire stabilità al sistema, alle aziende e agli oltre 1000 operatori impegnati e per evitare sprechi assurdi nell’erogazione dei finanziamenti.

Alla luce delle riforme che stanno toccando la pubblica amministrazione isolana sarebbe forse auspicabile una progettazione capillare che veda come principale interlocutore le unioni dei comuni.

In questa attività sarebbe necessario l’intervento di rappresentanti delle associazioni di categoria che devono e possono essere un interlocutore qualificato.

Traendo le conclusioni da queste considerazioni è dunque necessario ripartire dalla normativa regionale di settore rimettendo mano alla legge n. 14 del 2006, innanzitutto attualizzandola rispetto al mutato quadro amministrativo regionale ma, soprattutto, correggendone alcune carenze alla luce di una verifica puntuale della sua passata applicazione. Per fare questo è necessario coinvolgere gli operatori del settore, in primo luogo le associazioni che riuniscono i professionisti dei beni culturali operanti nel territorio (AIB, ANAI, ANA, ecc.) che possono fornire al legislatore un parere qualificato sull’efficacia della norma, mettendone in luce le criticità e indicandone i relativi correttivi.

La riforma della legge dovrebbe essere mirata a dare organicità e stabilità al comparto dei beni culturali isolani, magari attraverso un censimento che metta in luce l’attuale condizione dei luoghi della cultura attivi sul territorio regionale, razionalizzando e correggendo eventuali anomalie e avviando una regolare attività di pianificazione che permetta di farli operare nel migliore dei modi.

È a nostro avviso basilare dare stabilità al personale, valorizzandone competenze e professionalità. Sarebbe necessario, quindi, da una parte esigere l’impiego di operatori altamente qualificati e provvisti dei titoli specifici per ogni area d’impiego (legge 110/2014), dall’altra assicurare loro delle adeguate condizioni lavorative che – sembra scontato dirlo, ma purtroppo non lo è – partano dall’applicazione di un contratto di settore e garantiscano una continuità nell’attività lavorativa. Solo tutelando la dignità degli operatori si possono attirare le adeguate professionalità necessarie ad una gestione di alto profilo del patrimonio culturale isolano.

La normativa potrebbe dunque subordinare l’erogazione dei finanziamenti alla verifica dell’applicazione del contratto di settore e alla regolare retribuzione dei dipendenti, e si potrebbe anche pensare di escludere quelle società non in regola sotto questi aspetti. Un altro punto che dovrebbe essere inserito nella legge riguarda i bandi di gara, troppo spesso redatti e valutati da personale non addetto ai lavori. Dovrebbe invece essere prevista la consulenza delle associazioni di settore e delle Soprintendenze nella fase di redazione del bando e, soprattutto, in quella di valutazione delle offerte, affinché possa essere fatta una corretta stima della congruità dei progetti presentati e del loro valore scientifico.

A questo proposito, occorre anche ricordare che la legislazione nazionale sui beni culturali, nello specifico il Dlgs n. 42 del 2004, prevede che la valorizzazione dei beni culturali sia esercitata dallo Stato in concorso con le regioni. Sarebbe dunque auspicabile che in sede di valutazione dei progetti la legge stabilisca una premialità per le offerte volte alla valorizzazione dei beni piuttosto che ad una loro ordinaria gestione.

Se siamo tutti d’accordo che i beni culturali sono una risorsa (anche se spesso gli amministratori degli enti locali vedono nella gestione della cultura solo un peso), dobbiamo anche realizzare che si tratta di un comparto che non può offrire un risultato economico, almeno non nell’immediato, anche se il recente exploit registrato dall’esposizione dei giganti di Monti Prama, dimostra le potenzialità offerte da un patrimonio culturale di eccezionale valore come quello sardo.

In ogni caso la ricaduta positiva nell’investimento culturale non può e non deve essere misurata unicamente sulla base del mero ritorno economico, ma dei risultati di crescita complessiva della società che possono essere valutati solo a lungo termine. Deve comunque essere chiaro che investire nei beni culturali può e deve contribuire alla crescita civile della Sardegna.

Impressioni sull’assemblea nazionale del 18 Dicembre [Andrea Zuddas]

Domenica 18 dicembre sono stato a Roma, Hotel Ergife, per partecipare all’assemblea nazionale del Partito. Vorrei condividere con voi una riflessione sul merito e sulle conseguenze di questo importante appuntamento. Primo fra tutti il fatto che dopo la cocente sconfitta referendaria non si farà nessun congresso.

Ma torniamo prima indietro di qualche giorno.

Il 12 dicembre scorso la direzione nazionale del Pd si chiudeva con la seguente dichiarazione del segretario Matteo Renzi:

“Io sono dell’idea che occorre rispettare lo Statuto e che domenica l’Assemblea debba decidere se fare o meno il congresso. Io vorrei farlo. Sarà l’assemblea a definire le modalità delle candidature, poi la direzione, poi i nostri iscritti ed elettori.”

lo trovate qui al minuto 4.13
http://www.partitodemocratico.it/partito/renzi-domenica-lassemblea-decida-sul-congresso/

Il 18 dicembre alle 11.00 cominciano i lavori dell’assemblea nazionale.

Dopo l’introduzione del presidente Orfini, segue un lungo intervento di Matteo Renzi (58 minuti) seguito da una lista di iscritti a parlare (tra cui Franceschini, Cuperlo, Rossi, Pittella, Giachetti, Viotti ecc.) con circa 5 minuti di tempo a disposizione.

Dopo i primi tre interventi il presidente annuncia che alle 15.30 avrà luogo la votazione sulla relazione iniziale del segretario.

Cito ora brevemente i punti salienti delle proposte illustrare durante la relazione:

  • La nostra proposta di legge elettorale è il mattarellum.
  • Non ci sarà nessun congresso anticipato.
  • Il 21 dicembre riunisco la segreteria e la renderò più plurale.
  • Il 21 gennaio mobilitiamo i circoli, il 28 gennaio avremo un nuovo programma, il 4 febbraio parleremo della nostra idea di UE.

A questo punto la mia domanda (ingenua) sorge spontanea: da dove nascono queste proposte?

Cosa è cambiato dal 12 dicembre?

Se l’assemblea è chiamata semplicemente ad approvare o respingere la relazione del segretario in che modo questa può “decidere se fare o meno il congresso”? Che senso hanno gli interventi successivi se comunque si vota solo su quello che è stato detto all’inizio dal segretario?

Riporto un estratto del discorso di Matteo Renzi, potere trovarlo qui al minuto 34.50
http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-matteo-renzi-3/

“Il congresso sarebbe stata la scelta migliore per ripartire all’interno del PD. Dal giorno dopo ho pensato al congresso. […] Ma la prima regola del nuovo corso deve essere quella di ascoltare di più, io per primo. Ho accettato il suggerimento di chi mi ha chiesto (non ci dice chi in particolare, ndr) di non fare del congresso il luogo dello scontro del partito sulla pelle del Paese. Ho accettato di partire esattamente dal rispetto fedele e totale delle regole che animano la nostra comunità. Ho accettato (ancora, accettato partendo dalla proposta di chi?) di rispettare totalmente la tempistica e le regole che ci siamo dati, di non piegarle a nostro vantaggio. […] Rispetteremo quindi le scadenze statutarie, faremo il congresso nei tempi stabiliti dallo statuto (a fine 2017, dopo le politiche, ndr).”

A questo punto i retroscena e le ipotesi possibili su questo cambio di rotta si sprecano. Suggerisco di tenere gli occhi puntati sui nuovi componenti della segreteria, così per farci un’idea.

Finita la relazione seguono gli interventi dei dirigenti del Partito. In ordine sparso:

  • Franceschini e Pittella sostanzialmente approvano su tutta la linea la proposta del segretario.
  •  Per Gianni Cuperlo quello che era il telaio della democrazia – tasse = welfare – si è spezzato in seguito alla crisi economica e ai cambiamenti sociali (globalizzazione) e politici (dalla caduta del muro in poi).

    Mi ha colpito molto la frase con cui ha sintetizzato il voto referendario: “il 4 dicembre è stato il trailer di un futuro ballottaggio alle politiche che per fortuna non ci sarà”.

    Ha concluso riflettendo sullo scollamento del Partito rispetto a quelle stesse fette della società che hanno smesso di votarci e sostenerci: “fuori da questa sala c’è un Popolo, il Pd e i suoi capi non sono più percepiti da quel popolo come parte di se”.

  • Preferisco non commentare l’intervento di Giachetti. Mi limito a dire che utilizzare l’espressione “hai la faccia come il culo” nei confronti di un compagno di partito o di chiunque sia totalmente fuori luogo e dimostra una grave mancanza di autocontrollo. Temo che certi toni non siano propri né di un dirigente di partito, né di un ex candidato sindaco, tanto meno di un deputato (4 mandati).
  • Enrico Rossi chiede la convocazione del congresso. Dice che “dobbiamo interrogarci su cosa deve stare in mezzo tra il governo e il popolo, su cosa mettiamo in termini di partiti, di sindacati, di associazioni, di partecipazione.” […] “Non ci si candida alla guida del Paese se non abbiamo un modello di democrazia e se non lo rinnoviamo prendendo spunto anche dal risultato referendario.”
  •  Daniele Viotti fa un intervento critico sull’intervento del segretario. Annuncia che reteDem non voterà qualora il voto dell’assemblea sia sull’intera relazione e non sui singoli punti.
Ritiene che la campagna referendaria del Partito sul web abbia molti messaggi sbagliati, “con toni ed espressioni al limite dell’antipolitica non proprie del PD”. Ricorda che il 2017 vedrà anche l’appuntamento del referendum CGIL e che il governo dovrebbe impegnarsi a dare le giuste risposte prima del voto. Ribadisce la necessità di un congresso e che questo dovrebbe essere “un momento serio in cui parlare di temi, piuttosto contare le correnti. In cui parlare ad esempio di reddito di cittadinanza e di un grande piano di piccole opere (basta grandi opere stile ponte sullo stretto)”

    L’assemblea si conclude con il voto alle 15.30.

    481 favorevoli, 2 contrari, 10 astenuti.

    (I membri dell’assemblea sarebbero 1000, la sala congressi dell’Ergife conta 1800 posti. C’erano tante persone in piedi). A noi le conclusioni.

    Andrea Zuddas

Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere [Andrea Zuddas]

E’ da tanto tempo che noi europei non lo leggiamo più Antonio Gramsci – mentre negli USA Sullivan del WP cita proprio Gramsci all’indomani delle elezioni, sarà l’effetto Trump? – eppure ci tornerebbe utile. E’ terribilmente attuale.

“Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere.”

Il vecchio che muore oggi è il sistema partitico. La caduta del muro non ha segnato solo il trionfo irreversibile del liberismo, ma ha mandato in pensione l’idea della politica come luogo di una scelta tra modelli di società. I grandi Partiti della Sinistra europea (SPD, PASOK, PSOE e DS poi PD) hanno smesso di produrre una loro visione della società. Hanno sostanzialmente accettato la vittoria del liberismo scendendo a compromessi. Per 30 anni hanno vivacchiato un po’ come l’orso Baloo, per poche briciole, lo stretto indispensabile.

Il famoso populismo che tanto ci spaventa e che “dobbiamo arginare” è figlio di questo vuoto.

La sinistra ha smesso di parlare alla sua gente. E’ venuta meno alla sua missione naturale.

Tutti siamo d’accordo (spero) sugli errori dei Democrats negli Usa. Nel fallimento della terza via. Negli errori della sinistra fatti dalla crisi economica in poi. Nel non capire che il mondo dal 2008 è cambiato. Potrei subito concentrarmi sulla situazione italiana. Sulla attuale crisi di governo. Sulla vittoria del fronte del NO.
Ma prima facciamo un passo indietro.

Nella mia città con la scusa che il Sindaco ha vinto al primo turno, nessuno si è soffermato molto sul voto amministrativo. Tralasciando la rovina romana (troppo doloroso ricordare i consiglieri del PD dimettersi in massa; qualcuno che pensava di potersi permettere il lusso di andare a elezioni anticipate; lo schiaffo del 67% della Raggi) , prendiamo come esempio Torino. Fassino nel 2011 vinse col 56.7% e in cinque anni ha perso 100 mila voti.

Ezio Mauro, quando sale a Torino sul tram numero 3, scopre “che tra i due capolinea si invertono i quozienti elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei consensi contro il 26 della sinistra.”

La Sinistra ha abbandonato le periferie, per arroccarsi al Centro, in tutti i sensi.

Non elabora più nulla. Non scrive. Non è attenta a quanto è mutata la società in questi anni. E’ la grande assente ad ogni appuntamento, vertenza, lotta sui tutti i temi che l’hanno fatta nascere e ne hanno fatto la fortuna. Si è dimenticata dei poveri per concentrarsi sul ceto medio, convinta che la base elettorale fosse equivalente. La crisi economica in 10 anni non solo ha portato nuovi poveri ma sopratutto ha indebolito proprio il ceto medio. Quest’ultimo, che adesso realizza l’amara realtà del liberismo e della globalizzazione, vota chi gli dice che è contro lo status quo, indipendentemente dall’appartenenza politica.

La sinistra si ritrova nel frattempo senza base elettorale, non sfonda a destra e viene giustamente abbandonata dal suo popolo (il PD perde 200mila tessere in tre anni – da partito liquido a partito liquefatto). La Sinistra non è più dalla parte giusta della barricata, fa grosse coalizioni in nome della stabilità (in Italia si è alleata con Angelino Alfano e Denis Verdini).

Per arrivare al referendum costituzionale, il PD domenica notte è caduto dal pero. E la cosa non mi ha stupito. Talmente era arroccato che si è svegliato come la bella addormentata, cento anni dopo, con addosso vestiti fuori moda.

Torniamo alla frase di Gramsci, al “nuovo che stenta a nascere”.

Cosa facciamo noi nati dopo gli anni 80-90? Che ruolo abbiamo in questa storia?

Il dato nazionale del 4 Dicembre dice che l’81% dei votanti tra i 18 e i 35 anni ha votato NO al referendum costituzionale.

E come poteva andare altrimenti? Dati (istat) alla mano la disoccupazione giovanile in Italia è al 37%. Al sud arriva al 60%, in alcune realtà addirittura all’80%. 7 milioni di under 35 vivono ancora a casa coi genitori. E’ un tema di cui un partito di sinistra a vocazione maggioritaria deve occuparsi oppure no?

Nei giorni scorsi leggevo le che tra i “banchetti” del comitato bastaunsì c’erano: “Dipendenti pubblici, amministratori, pubblicitari, medici”

E i poveri? I precari? I disoccupati? Gli esclusi? Chi ci ha pensato in questi anni? Dove sono?

Sono a votare contro di noi nella migliore delle ipotesi, quando non sono in piazza (il nostro luogo naturale di una volta) a rappresentarsi da soli.

Sono finiti i tempi in cui riempivamo piazza San Giovanni a Roma o piazza del Carmine a Cagliari.

Noi oggi le piazze le riempiamo pagando il biglietto ai militanti. Militanti che fanno sedere in prima fila quando viene il segretario per fregiarsi dell’appoggio giovanile. Poi di fatto non abbiamo voce in capitolo su niente. Entriamo negli organi dirigenti solo con la benevolenza del capo bastone con cui stringiamo accordi.

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Concludo chiedendo a gran voce una nuova discussione. C’è bisogno di congresso.

Dobbiamo individuare cosa abbiamo sbagliato fino ad oggi e correggere (se non è troppo tardi) la rotta.

Il Partito deve guardare a Sinistra. E smettere di corteggiare il voto moderato. Questa strategia ha fallito sotto ogni punto di vista.

Il Partito deve aprire agli under 35 le porte dei suoi organi dirigenti e deve farlo anche regionalmente.

Deve tornare tra la gente.

Deve rinnovarsi ma senza dimenticare la propria storia. Non deve “rottamare” il passato, deve salire sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto nella storia e prosciugare così il voto populista. Con argomenti propri della nostra storia, elaborati da una classe dirigente che sia attenta ai problemi degli ultimi strati della società.

Il populismo si batte solo in un modo: riportando il popolo dalla nostra parte.

Andrea Zuddas
dirigente e militante del Partito Democratico

[Vittorio Faticoni] Lettera agli amici sul referendum

Domenica prossima siamo chiamati a votare sulla legge di riforma costituzionale già approvata dal Parlamento.

Si tratta di una riforma molto importante che costituisce un passo decisivo (un primo passo decisivo) verso la modernizzazione delle nostre istituzioni di governo, secondo modelli in vigore negli altri grandi Paesi europei.

referendum

Due, i punti principali della riforma.

  1. Secondo la Costituzione vigente , le due Camere sono chiamate, entrambe, ad esprimere la fiducia al Governo; titolari, entrambe, dei medesimi poteri legislativi, elette, entrambe, su designazione dei partiti: i rituali si ripetono incessantemente, le necessità di mediazioni e di accordi rende sempre più impacciata l’azione di governo. In un Paese che deve confrontarsi con i competitori europei e internazionali agguerriti, pronti nelle decisioni e nelle risposte, questo assetto del sistema parlamentare deve essere cambiato.
    Una Camera politica, espressa dall’elettorato nazionale, è sufficiente per garantire la tenuta di un sistema di governo democratico parlamentare e ad assicurarne la stabilità.
    L’altra Camera (il Senato), in asse con ciò che prevedono le altre Costituzioni europee, diventa il luogo di rappresentanza delle istituzioni territoriali, e segnatamente delle regioni. Esse, come i Laender tedeschi, come le COmunidades autonomas spagnole, sono titolari di poteri legislativi (nelle materie di competenza) e di rilevanti funzioni amministrative, e perciò è opportuno che siano coinvolte, attraverso loro rappresentanti, nell’esercizio dei poteri legislativi nazionali , e possano condividere (secondo procedure ben definite) le politiche nazionali e controllarne l’attuazione.
  2. Il testo vigente,  a seguito della riforma del 2001, appare eccessivamente squilibrato nell’attribuzione di poteri legislativi troppo ampi alle Regioni. Deve essere corretto riportando alla competenza statale la legislazione sulle materie di interesse nazionale (le grandi infrastrutture, strade, ferrovie, aeroporti, gli impianti di produzione di energia, le reti di comunicazione, etc.). Le regioni, attraverso i loro rappresentanti in Senato, hanno un occhio su queste politiche, possono suggerire, proporre, controllare, riducendo la possibilità di conflitti.
    La competenza legislativa delle regioni, come attualmente definita, produce in capo ad esse il potere di condizionare e vincolare le politiche nazionali anche al di là dell’ambito dei rispettivi interessi territoriali. E si impongono accordi e intese con le singole regioni per ogni scelta anche se di valore strategico per il Paese. Collocare una grande opera pubblica, un impianto di produzione di energia elettrica o di rigassificazione (l’impianto di Brindisi!), richiede defatiganti procedure rea centro e periferia e spesso diventa impossibile superare preconcette chiusure.
    La legge di riforma corregge queste storture del sistema, riportando allo Stato ciò che è di interesse nazionale, tenendo ferma la competenza legislativa delle regioni nelle politiche di interesse regionale; che resta tuttavia ampa e investe materie importanti quali l’urbanistica, l’agricoltura, il commercio, le politiche sociali, l’organizzazione sanitaria, etc. Perciò non si rinviene in proposito alcun stravolgimento dell’impianto costituzionale (ma solo una necessaria correzione).
    Entrambe queste rilevanti modificazioni del testo vigente (due Camere con le stesse competenze, troppo estesi poteri legislativi alle regioni), erano da tempo auspicate nei dibattiti politici e giuridici e nell’opinione pubblica; ma sinora, nonostante i ripetuti tentativi, non era stato possibile arrivare in porto. Adesso è la volta buona, e non dobbiamo perderla.

Ma ci sono altre parti della riforma che vanno incontro a diffuse e reiterate aspirazioni: la riduzione del numero dei parlamentari (nel 215 senatori); gli uffici (compelssi e costosissimi) delle due Camere unificati con importanti riduzioni di spesa ed eliminazione di inutili sovrapposizioni di competenza; il CNEL (economia e lavoro, organo di mera facciata, poco utile e costoso) soppresso; le indennità dei consiglieri regionali (eccessive e ingiustificate in molte realtà) riportate al tetto dell’indennità del sindaco capoluogo; etc. Norme tutte intese a tagliare strutture organizzative inutili e spese eccessive (i cosiddetti costi della politica) e a semplificare le istituzioni do governo. Molti avrebbero voluto di più, ma si tratta di un primo significativo passo, un segnale evidente nella direzione giusta, cui sinora non si era riusciti ad arrivare.
C’è dell’altro. Si pensi dolo alla limitazione dell’uso dei decreti legge,il cui abuso ha stravolto i corretti rapporti tra Parlamento e Governo; al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta come i referendum; all’equilibrio tra donne e uomini assicurato negli organismi di rappresentanza politica.

La riforma, nel suo complesso, è buona e risponde all’interesse del Paese (e perciò all’interesse di tutti noi). Il Parlamento ha fatto la sua parte. Adesso tocca a noi!
Io spero che possiate votare SI con ferma convinzione!

Con amicizia e affetto 
Vincenzo Cerulli Irelli

[Matteo Lecis Cocco Ortu] Stadio Sant’Elia, brusche accelerazioni e frenate

Parere favorevole della Commissione Urbanistica alla proposta di variante per la realizzazione del nuovo stadio Sant’Elia: 6 voti a favore e 4 astenuti dopo una intensa seduta di commissione con i tecnici comunali che ci hanno illustrato tutti gli studi che accompagnano la delibera.

Da quando è iniziata questa nuova consiliatura sempre più spesso sento parlare di “accelerazioni” e “brusche frenate” quando si parla delle trasformazioni in atto nella città. Come se la buona poltiica fosse una gara di corsa. Io credo che la responsabilità di una amministrazione sia quella di dare risposte concrete e consapevoli al servizio dei cittadini e con un occhio attento alla collettività. Con serietà e tempestività.
In commissione urbanistica una precisa e puntuale illustrazione dell’Assessora Ghirra sulla variante che consentirà la realizzazione del nuovo Sant’Elia. A seguire un dibattito ricco di spunti e propositivo.

Domani in aula avremo la possibilità di rendere concreto il percorso che abbiamo iniziato ad aprile con la dichiarazione di interesse pubblico per uno stadio che sia vivo e attivo per 365 giorni all’anno.

Lo ho definito un atto rivoluzionario e una occasione storica per ricucire quello che la cultura politica e urbanistica del passato ha diviso. Ne sono sempre più convinto.

Nuovo Stadio Sant'Elia

Come avevo detto pochi mesi fa in occasione della votazione della delibera che ha dichiarato l’interesse pubblico dell’intervento.

Per tanti anni lo stadio Sant’Elia è stato un buco nero all’interno della città. Un buco nero che si accendeva poche ore ogni due settimane e che nel resto dell’anno è stata una barriera fisica gigantesca che contribuiva ad acuire la separazione del quartiere di Sant’Elia dal resto della città. Lo stadio, i parcheggi, viale Ferrara sono stati finora un enorme fossato che segregavano ancora di più il quartiere dal resto della città.

Questo intervento, urbanisticamente, con la variante che dovremo approvare prima della presentazione del progetto definitivo da parte del Cagliari Calcio, sarà una occasione storica per ricucire quello che la cultura politica e urbanistica del passato ha diviso.

Rem Koolhaas aveva immaginato questa ricucitura attraverso un masterplan con un intervento immobiliare importante a cui il centrodestra cittadino ha chiuso le porte in modo scellerato non ratificando il famoso accordo di programma firmato tra Emilio Floris, sindaco di Cagliari, e Renato Soru, presidente della Regione.

Noi lo facciamo attraverso la creazione di un polo sportivo unico nel Mediterraneo. Abbiamo già iniziato la ricucitura con il lungomare Sant’Elia, il parco degli Anelli e il suo collegamento con il fronte mare di via Roma. E con tutti gli interventi del Piano Città che affiancano i progetti culturali e di promozione sociale avviati in questi anni nel quartiere.

La dichiarazione di pubblico interesse per uno stadio che sia vivo e attivo per 365 giorni all’anno è un atto rivoluzionario da questo punto di vista. Una rivoluzione possibile grazie a quei servizi e pubblici esercizi che sono previsti nello studio di fattibilità che risponde a quanto noi stessi abbiamo indicato con gli atti approvati da questo Consiglio Comunale e dalla nostra Giunta.

[Jacopo Fiori] SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE E LA BALLA (CA NO) DELL’AUTONOMIA SPECIALE SARDA IN PERICOLO.

Ho già discusso la settimana scorsa con sovranisti, indipendentisti e autonomisti, i quali in buona parte mi hanno lanciato qualche strale e attestato disistima, e in altra parte (meno consistente) hanno argomentato sul perché questa riforma sarebbe deleteria per la Sardegna.
Devo dire, in ogni caso, che anche le onorevoli argomentazioni non mi hanno minimamente convinto, e che anzi le ho trovate suggestive ma, nuovo testo costituzionale alla mano, giuridicamente deboli.
Oggi mi è capitato di leggere un articolo di Gian Candido De Martin, uno dei più autorevoli studiosi e teorici nostrani del regionalismo, dell’autonomismo, del federalismo. Qui trovate il suo CV http://docenti.luiss.it/demartin/

De Martin non è un tifoso renziano. De Martin ha mosso osservazioni severe riguardo alla coerenza generale della riforma. De Martin è un iper-critico della revisione in senso neo centralista del titolo V della Carta.
Ebbene, De Martin, alfiere del principio autonomistico e fautore della Repubblica policentrica, sostiene che le autonomie speciali, e tra queste quindi anche l’autonomia della Sardegna, “non vengono per nulla messe in discussione dalla riforma”.
Non solo.
De Martin afferma che “le Regioni speciali escono di fatto [e addirittura ingiustamente] rafforzate dalla riforma”.
Trovate il suo articolo qui http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/2016/10/27/contraddizioni-e-incoerenze-della-riforma-costituzionale-in-materia-di-autonomie-territoriali/.

bandiera-sarda

E io devo ammettere che le sue argomentazioni rafforzano la mia convinzione che l’autonomia della Sardegna esca nella peggiore delle ipotesi illesa dalla riforma costituzionale.
Continuo ad aspettare che qualcuno mi indichi non già scenari apocalittici, visioni romantiche, e suggestioni effimere, bensì ragioni puntuali (possibilmente con riferimenti al testo), coerenti, logiche e stringenti che possano portare ad affermare che la nostra specialità uscirebbe ridimensionata da un’eventuale vittoria del SI al referendum costituzionale.

[Matteo Lecis Cocco Ortu] Prime riflessioni a caldo sul voto

Queste amministrative mostrano come il quadro politico italiano sia in evoluzione e quanto ci sia bisogno di una politica che coinvolga i cittadini per sanare la distanza tra tutti coloro che sono (e si sentono) esclusi dalla società di oggi e dal potere.

Una nuova generazione che assume responsabilità importanti è un segnale di speranza per la politica, e spero sia stimolo per tutti i partiti ad abbandonare le discussioni ombelicali e le conte interne per tornare a stare per le strade, nei circoli, nei social network in modo serio e responsabile.
Per il Partito Democratico in Sardegna una debacle. Dopo mesi di guerre intestine. Il PD vince dove riesce a tenere unito il centrosinistra intorno a un progetto serio di governo credibile.

 

 

Ora per tutti è il momento di dimostrare un maggiore senso delle istituzioni per affrontare la crisi che vivono i cittadini tutti i giorni. Affinché l’amministrazione della cosa pubblica non sia vissuta da nessuno come difesa di interessi di parte ma come leale collaborazione tra i diversi livelli di governo per uscire dalla palude in cui la cattiva politica del corporativismo e del clientelismo ci ha portato.

Buon lavoro a tutti noi.

Matteo Lecis Cocco Ortu

[Carla Trudu] Ogni Maledetta Assemblea: convincere per vincere insieme

Queste elezioni amministrative, che interessano molti comuni nella nostra regione, oltre al capoluogo, dovrebbero vederci tutti impegnati a promuovere la nostra politica e i nostri candidati, che hanno avuto la generosità di mettersi in gioco, e molti di loro lo hanno fatto “senza rete”.

Per loro e per il PD sardo mi piacerebbe che lo spirito della nostra campagna elettorale possa diventare quello di una squadra che nei propri territori combatte con lo stesso intento.

Siamo un grande partito che ha imparato che non basta vincere, per governare si deve convincere, vincere con, vincere insieme.

Any Given Sunday

 

Certo non abbiamo la forza persuasiva di Al Pacino nel famoso monologo nello spogliatoio della sua squadra, ma il senso è quello. Mi piacerebbe che su questa campagna elettorale per le amministrative non ci fossero distrazioni di elezioni per organismi interni. Mi piacerebbe non dover sentire dopo i commenti sarcastici dei nostri iscritti, dei nostri elettori sul tempo che la nostra classe dirigente perde a guardarsi l’ombelico, stare lì sempre a contarsi anziché impegnarsi per il bene comune, per provare a risolvere problemi.

Perciò speriamo che Assemblea del 20 sia rapida e indolore, si rimandi discussione a dopo le elezioni e che il giorno dopo sui giornali pubblichino solo un trafiletto con il resoconto, senza articoloni su retroscena, veri o presunti.

Tutta l’attenzione, il focus deve restare sulle nostre liste e sui nostri candidati.

Buona campagna a tutti noi.

Carla Trudu